Milano

A parlare di e con Dino Fracchia, classe da vendere (anagraficamente 1950), verrebbe da sparare titoli tipo “l’ultimo dei fotoreporter” o roba del genere. Perché Fracchia è stato uno dei migliori fotografi su piazza o d’assalto, come si diceva un tempo, del nostro paese. A sentir lui è pure stato fortunato, a cominciare dal quotidiano per cui lavorava, L’Unità, che gli ha permesso di seguire e immergersi nel magma della cronaca, dagli anni di piombo alle varie catastrofi ricorrenti nella disastrata patria anche pre-cambiamenti climatici, ma parimenti dentro la vita del movimento operaio, dai cortei a dentro le fabbriche.

Una vera e propria ‘scuola’ che ha reso inconfondibili i suoi scatti, privi di retorica e di effetti. Specialmente i tanti reportage sul lavoro, dentro acciaierie o cave di marmo, in ditte di strumenti musicali o nei più noti stabilimenti dell’industria, si è posto con quello sguardo innocente ma partecipe, quasi di un Vincenzino davanti la fabbrica, con quella accuratezza ed emotività che fanno sembrare le sue foto uscite da un film di Kaurismaki. Chi scrive ha ricordi di tanti suoi scatti, tipo quelli “storici” del festival di Re Nudo al Parco Lambro, che a Firenze andavamo a vedere da Fulgenzi, boutique archetipo del fricchettone, riuniti in quelle che oggi si direbbero fanzine ai limiti del ciclostile, o quelli della sparatoria in via De Amicis a Milano (1977) ma anche foto splendide come quella “statuaria” del cardinal Martini visto da dietro con ai suoi piedi una piazza Duomo gremitissima, in prima pagina sul Corsera. Si parla di foto i cui rotolini venivano sviluppati in fretta e furia e le foto stampate a come la va la va, in lotta contro il tempo, per consegnarle al tipo che in auto faceva il giro delle redazioni o per affidarle entro mezzanotte al “fuori sacco” in Centrale. Però era in questo modo che si formava la disciplina dell’occhio, emergeva la professione, la ricerca a tutti i costi della qualità. Con l’avvento del digitale, l’espandersi della tecnologia che fa credere a tutti di potersi improvvisare fotografi, la scomparsa dei giornali eccetera eccetera (e il discorso si farebbe troppo lungo) ecco che Dino può affermare, senza tema di smentita, che oggi il fotoreporter equivale allo spazzacamini o al linotipista, o a un Giovannitelegrafistaenullapiù, per continuare con Jannacci…

Accennavo sopra alla classe, non a caso, e Fracchia, pur continuando a esercitare il suo lavoro in una specie di syndacation con altri colleghi, sempre con il medesimo spirito di servizio e con esiti sempre più sorprendenti, sia che indaghi sulle baraccopoli di immigrati o che si trovi al centro delle manifestazioni pro curdi, ha adesso modo, diciamo così, di rilassarsi; di fotografare finalmente per sé. Ne è esempio mirabile la sua serie dedicata a Milano in questa galleria di Phos. Nella quale non solo ci svela un volto sconosciuto e spiazzante della sua città, ma lo fa con un distacco che è massima concentrazione di emozione e partecipazione. Quasi automatico approfittare di un bel titolo di Alberto Savinio, che si riferisce proprio al capoluogo lombardo: Ascolto il tuo cuore, città. E Fracchia lo ausculta con quella svagata arte della digressione, del ricordo che si aggruma in luoghi dell’affetto e del proprio cuore, al pari del fratello di De Chirico. Nel caso di Dino si capisce che i battiti che capta sono frequenti e frequentati tanto dallo sguardo quanto dall’abitudine, mentalmente inquadrati e fotografati centinaia di volte e che, nel momento perento del click, condensano il respiro della vita. Da “ragazzo di periferia”, come ama definirsi, “che va in centro solo per lavoro o per necessità” ci consegna aeree tangenziali, disperate rastrelliere, capannoni belli e lindi nonostante l’abbandono. Una luce da Cielo di Lombardia brilla anche tra scambi di binari dove cresce l’erbaccia, nelle sterminate falangi di cartelli di divieto di sosta, in cascine che si avviano irrimediabilmente a divenire loft. Una metropoli, la sua, quasi disabitata; nella quale la presenza umana si limita a un passeggero che aspetta sparapanzato sulla pensilina o al barista che tira su la saracinesca. Tra murales e graffiti, strade con i tipici selciati di Brera lustri di pioggia, navigli oltre i Navigli, manifesti già sbiaditi e cavalcavie, anche gli Omenoni di Abondio diventano epifenomeni mai visti (“li ho fotografati - confessa - dalla fermata del tram”).

Proprio in questa ricerca, proprio perché non volutamente tanto più intensamente lirica, emerge il carattere dell’arte di Dino Fracchia, che da cacciatore dei momenti salienti diviene medium degli attimi silenti: di quel silenzio che può contenere tanto la gioia più immensa quanto il dolore più profondo.

Fabio Norcini

Note dell'autore

Milano che dopo l'Expo universale sta riconquistando faticosamente il suo primato di città europea e capitale economica e morale d'Italia, la città delle banche e del Buon Governo, dove tornano in massa i turisti e gli investitori.

Ma esistono cento, mille Milano, lontane anni luce dall'asse Duomo-Castello Sforzesco, da Brera e dal Cenacolo Vinciano, o dai nuovissimi grattacieli di Porta Nuova; è la città delle periferie in sofferenza, che gradualmente trovano il loro riscatto, e dei mille paesaggi urbani, anche in centro, che i visitatori frettolosi raramente riescono a vedere.