Io non spendo granché dal barbiere: 15 euro una volta al mese. Però quando leggo che in India potrei farcela con 20 rupie, ossia 30 centesimi, beh mi prende forte la voglia di prendere un volo per andare a farmi tagliare i capelli nella democrazia più popolosa del mondo. Guardando le foto, sarebbe un ritorno al passato remoto, come rimettere piede in quella baracchetta di legno dipinta di verde, dietro l’osteria e a fianco del gioco delle bocce che sarebbe poi diventato un dancing, dove andavo a farmi tagliare i capelli negli anni Cinquanta. Il barbiere si chiamava Luigino, ma non era un vero barbiere. Mi pare fosse operaio. Qualsiasi fosse il suo mestiere, nei fine settimana maneggiava le forbici e soprattutto quella macchinetta a mano che lui faceva vibrare con un movimento delle mani che mi pareva automatico, avulso dal resto del corpo. Quel ritmo lo avrei ritrovato parecchi anni dopo guardando il film Tempi moderni di Charlie Chaplin. Per quanto Chaplin usasse entrambe le mani per stringere i bulloni alla catena di montaggio, era lo stesso tremito meccanico. Chissà forse anche Luigino aveva acquisito questa abilità stringendo bulloni in fabbrica.
Verso Natale, i barbieri regalavano allora un libretto-calendario le cui pagine profumate e adorne di donnine, via di mezzo tra le ex inquiline delle case chiuse da poco e le pin-up dell’iconografia americana, rappresentavano la ricevuta della mancia per i signori e un gadget d’iniziazione alla curiosità erotica per i ragazzi alle soglie della pubertà. Ahimè ero ancora un bambino e sapevo dell’esistenza di quel vademecum perché l’avevo visto spuntare da un taschino del corpetto di mio padre. Lo avevo preso all’innocente scopo di annusarlo ma il trinciato forte con cui mio padre si faceva le sigarette ne aveva già mutato il profumo. Mi limitai pertanto a occhieggiare le figure. Ero curioso dei misteri femminili.
Crescendo, ebbi ancora a che fare con barbieri che facevano tutt’altro per gli altri giorni della settimana. A differenza degli indiani di Massimo Pacifico non erano barbieri professionisti, però le loro botteghe erano arrangiate alla bell’e meglio e questo sì che poteva dare loro l’aria di una certa precarietà esotica. Uno era calzolaio, ma soprattutto aveva una gamba più corta dell’altra. Calzava perciò una scarpa con una suola dalla zeppa alta una spanna. Il che non gli impediva di girarmi attorno con un’andatura oscillante come se si trovasse a bordo di una nave mossa dal mare in burrasca. Alla fine dell’opera anche i miei capelli risentivano, come dire, della procellosa tonsura e il taglio era un po’ ondoso, con alti e bassi. Mi bastò una volta per non ripetere l’esperienza. Lo chiamavano Viola, quel figaro. Non so perché e non saprei a chi chiederlo. Forse era davvero il suo cognome. Credo che la viola da gamba non c’entri per nulla. Sarebbe stato un soprannome troppo ricercato.
Più a lungo durarono invece le mie sedute con Gambazza, e questo era il suo vero cognome. Le sue conversazioni con gli altri clienti, giacché io in quanto ragazzino ero tenuto all’ascolto senza facoltà di intervenire, vertevano esclusivamente sull’elettronica. Si stava infatti costruendo un televisore, in quei primi anni Sessanta, con il metodo e i pezzi acquistati per corrispondenza dalla Scuola Radioelettra di Torino. Finì che andò a lavorare come tecnico per un importante negozio di elettrodomestici in città. Ah, ecco. Mi sono dimenticato di precisare che i barbieri di cui vi ho finora parlato erano tutti di campagna. Il che ne spiega l’improvvisazione.
Vi ho risparmiato, sempre della mia infanzia, il barbiere che parlava sempre di caccia e quello, forse il primo in assoluto, che mi metteva sulla poltrona per bimbi con la testa di cavallo e le redini. Poi mi toccarono i due barbieri, soci della medesima bottega, melomani persi. Uno finì per portarmi a vedere il Rigoletto. La prima volta che mi abbioccai a teatro. Era il 1968.
Ho raccontato queste storie, perché non ne avevo di indiane. A questo punto però mi è venuta la curiosità di sapere di che cosa si parla nelle barbierie indiane. Chissà che un giorno non accompagni Massimo per capire se laggiù i barbieri fanno solo i barbieri o non arrotondino in qualche modo. E in che modi nel Paese di Narendra Modi. Mi piacerebbe raccontare loro qualcosa che sia per loro molto esotico e che per noi è solo bislacco. Per esempio, che da noi i barbieri si chiamano hair stylist e che nella mia città ce n’è uno che ha chiamato la sua bottega «Un diavolo per capello». Credo che il nome sia giustificato dalle tariffe.
Ivano Sartori
Author's notes
Since the mid-90s of the last century I have often been to India. And I photographed a lot. Above all, in alphabetical order: architectures, barbers, brahmins, cyclists, deities, elephants ... The series dedicated to barbers is the most homogeneous. It recently became a photo-film shown, out of competition, as a preview, at the 37th edition of the SIFF (Sulmona International Film Festival) and which is now to see on BARNUM. Getting a shave on the subcontinent costs for Westerners 20 rupees (around 30 cents). The last time I entrusted my face to a figaro, in Pushkar, Rajasthan, the barber was so nice that I left him 80 rupees of tip, despite having used the electric razor... He told me he had a family!
Note dell'autore
Dalla metà degli anni 90 del secolo scorso sono stato spesso in India. E ho fotografato molto. Soprattutto, in ordine alfabetico: architetture, barbieri, bramini, ciclisti, deità, elefanti… La serie dedicata ai barbieri è tra le più omogenee. È diventata anche un foto-film presentato, fuori concorso, in anteprima, alla 37ma edizione del SIFF (Sulmona International Film Festival) e che è visibile ora su BARNUM. Farsi sbarbare nel subcontinente costa 20 rupie (circa 30 centesimi), per gli occidentali. L’ultima volta che ho affidato la mia pelle delicata ad un figaro, un rajasthano di Pushkar, lui era così simpatico che gli ho lasciato 80 rupie di mancia, nonostante avesse usato un rasoio elettrico… Mi ha detto che teneva famiglia!